Da Sciacca a Girgenti nel 1800




Franz von Löher fu un politico tedesco, studiò legge, storia, scienze naturali e arte nelle università di Halle, Monaco, Friburgo e Berlino, nella metà dell'Ottocento intraprese una serie di lunghi viaggi in Europa, Canada e Stati Uniti di America.

Nel 1864 uscì un suo libro, in due volumi, "Sizilien und Neapel", in cui racconta il viaggio intrapreso nel regno Borbonico. Nel primo tomo dedicò un capitolo intitolato "Monteallegro e Girgenti" in cui descrive il percorso tra i due capoluoghi di allora, Sciacca e Girgenti.

Monteallegro e Girgenti 

Un viaggio in Sicilia, come in Oriente o nelle terre selvagge americane, ha un suo peculiare piacere. Stai a cavallo tutto il giorno, vedi il sole che sorge presto sopra i monti e scende nel mare a tarda sera, vedi ogni piccolo animale in fondo alla brughiera e ogni avvoltoio alto tra le nuvole: insomma, tutta la natura con la sua molteplice vita, con il suo cambiamento e trasformazione inquieta e silenziosa, con le sue tentazioni segrete più profonde che penetrano nei sensi e fino nei pori della pelle.
 Lì vivi all'aria aperta e ti senti come un nuotatore su un'onda morbida e luminosa. E forse la più grande attrazione è che non ti stiracchi in un treno postale o in un vagone ferroviario, ma devi impegnare la tua mente e la tua forza ogni momento per raggiungere le vette delle rocce e attraversare con sicurezza i fiumi. Naturalmente ci sono anche delle difficoltà e dovremmo rendercene conto il prima possibile. E poi, per quanto riguarda la notte, preferirei cento volte dormire sotto una tenda e le stelle che nelle locande di Sicilia.
Queste osterie hanno un solo vantaggio: il cuoco che vi accompagna potrà preparare gustose pietanze ai fornelli usando la loro cucina, sempre se durante il giorno avrà gli occhi aperti per vedere dove si possono comprare cose decenti. Quando siamo partiti da Sciacca, il sole era ancora alle spalle delle montagne di nuda pietra. Lo sguardo alla città pallida, alle torri divelte del suo castello, a un'alta montagna a sinistra con le rovine del castello (...). L'alta montagna che svettava era il Calogero, le cui calde sorgenti sulfuree erano già state utilizzate dall'antichità. L'isola di Pantelleria fu cercata invano tra le coltre di nubi che giacevano sull'orizzonte del mare. 
Si passò per colline rocciose e attraverso profondi canali scavati dall'acqua in cui invece dell'acqua brillavano masse di ciottoli enormi che arrivavano fino alla riva del lago, e poi ancora su dune, dall'alto delle quali si vedevano le rocce multiformi e i vortici del mare e del grigio promontorio, intorno al quale le onde schiumavano e i bianchi gabbiani vi svolazzavano intorno.
 E ancora una volta siamo scesi sul mio sentiero preferito, quello vicino alla spiaggia, a contatto con le maree fragorose e tonanti. Il mare era costantemente in grande agitazione. La terra ormai troneggiava sopra di noi come un lungo, interminabile muro, ai piedi del quale non c'era altro che la striscia di sabbia sul mare agitato. Ogni tanto alla sommità di questo muro fatto di terra, che risale al periodo saraceno, venivano alla luce punti rialzati e torri di avvistamento diroccate. Alcune volte l'acqua scendeva dall'altopiano, in un'ampia caduta, ma non se ne vedeva il rivolo: sicuramente di sopra venivano irrigati i campi.
Il nostro sentiero era  un  letto di ciottoli e attraversava colline sabbiose e insidiose pozze d'acqua, poi il percorso era così stretto che, a volte, solo un essere umano o un mulo potevano camminarci sopra. Questa era l'unica strada tra Sciacca e Girgenti, i due capoluoghi della costa meridionale. Per ore non vedemmo nessuno, arrivò solo un frate cappuccino tutto rattoppato che guidava il suo povero asinello nella sabbia. 
L'atmosfera era indicibilmente solitaria, tra il mare e le montagne di dune ti sentivi come se fossi tagliato fuori dal mondo intero. Ma guarda che alto simbolo di cultura! In mezzo alla sabbia deserta incontrammo all'improvviso degli uomini che montavano i pali del telegrafo, subito dopo ci dirigemmo nuovamente verso l'entroterra ed eravamo di nuovo circondati da eriche profumate ma più rigogliose e fiorite. 
Ogni erba selvatica gareggiava per dare il meglio di sé. I grandi fianchi delle montagne apparivano ricoperti di ginestre giallo chiaro, là di trifoglio rosso vivo, e altri luoghi erano completamente ricoperti di fiori blu. 
Tutti i nostri bambini conoscono la piccola euforbia: qui è cresciuta fino a diventare un albero, alta come un cavallo e un cavaliere. Lentamente scendevamo verso i prati, in mezzo ai quali serpeggiava un lento e profondo corso d'acqua, il Platani. Come era così bello alla vista questo verde mite! Si cercò a lungo un guado da attraversare e quando lo si trovò l'acqua arrivava alla sella. La zona era deserta. 
Ma quando salimmo sul pendio di una montagna e guardammo in lontananza apparve lo spettacolo più vivido. Lì c'era un abbeveratoio, si potrebbe quasi dire che, tra tutti i luoghi, questo simboleggiasse la Sicilia.
Una sorgente è raccolta in un enorme vasca di pietra, attorno alla quale c'è molto fango, bovini e persone vengono a dissetarsi. Nessuno si inorridisce per il fango e la sporcizia sul fondo dell'abbeveratoio, i bovini non lo fanno per natura, il popolo per abitudine. 
Pecore e buoi, capre e muli erano ora radunati come chiazze chiare attorno a uno di questi abbeveratoi, e nuove mandrie continuavano ad arrivare dalle alture. I pastori, a cavallo o meno,  avevano lunghe aste di legno in mano e i potenti e lunghi fucili piazzati davanti la sella del cavallo. 
Gli uomini apparivano maestosi, le loro mandrie magnifiche. C'erano buoi, rossi e bianco-grigi, con enormi corna, grandi quanto metà delle zanne degli elefanti, eppure ogni muscolo del loro collo si muoveva agilmente e facilmente sotto la pelle lucida, sembravano come una specie di cervo selvatico. Non bisogna però dare per scontato che i bovini potessero comportarsi così bene. 
Anche le persone e gli animali della nostra carovana desideravano una sosta, ma la nostra guida passò velocemente e silenziosamente. Avrà le sue buone ragioni. E di nuovo andammo nel deserto, e di nuovo il vento caldo che si era alzato ci avvolse. Se ogni tanto non fosse stato per una folata di vento più fresca, il caldo sarebbe diventato insopportabile. 

(Monteallegro)

Entrammo in una valle rocciosa: davanti a noi si ergeva un'alta montagna, con i fianchi molto ripidi. 
E nonostante fosse così alta e ripida, in cima c'era ancora uno strano paese con mura e strade, case e chiese: era crollato tutto, tutto era morto e vuoto, e come incantato nella luce del giorno.
Il paese era deserto da secoli, nessuno saliva più a disturbarlo. Chi avrebbe tentato di scalare quella altissima e terribile roccia quando non c'era più nulla da guadagnare? Così il paese fantasma rimase intatto, abbandonato a se stesso, anno dopo anno. 
Mentre giravamo intorno alla montagna, ai suoi piedi c'era un meraviglioso giardino, completamente ricoperto di alberi verdi e fittamente pieno, quasi ricamato, di arance dorate: uno spettacolo bello e strano in questo deserto nudo e roccioso. 
Subito dietro c'era la nuova Monteallegro, il cui fondatore un tempo possedeva questo ormai fatiscente vecchio paese. Mai nessun villaggio fu chiamato con tanta ingiustizia. 
Questa dovrebbe essere una "montagna divertente"? Ma del resto se ogni giorno porta dolore, poi ti ci abitui e il dolore lo dimentichi. Le case sono buchi di gesso, le strade sono letti di gesso con spessa polvere, le montagne tutt'intorno sono gessose. Nelle strade l'aria era calda e soffocante. Anche qui c’era un edificio di pietra con lo stemma dei Savoia e la scritta colorata: “Vigilantes di Monteallegro”. 
Dalle divise logore e sporche spuntava una bella collezione di "facce da forca", così direbbe un connazionale tedesco che non conosce gli italiani. Poveri ragazzi! Hanno deciso di prendersi una pallottola in corpo dai loro stessi compagni di scuola che sono fuggiti in montagna per non diventare soldati? 
Intanto il cielo azzurro e la gentilezza delle donne era ovunque. Anche nella piccola locanda di Monteallegro c'erano gli sguardi amichevoli delle ragazze, e il il vino aveva un buon sapore. Ma avremmo preferito andare nella fresca cantina piuttosto che nella stanza, se ce ne fosse stata una. 
Soffiava ora uno Scirocco che nemmeno in Africa.
Su questa costa meridionale abbiamo trovato uno scirocco fresco come torte calde appena sfornate. Ma a che serviva lamentarsi? 

(Siculiana)

Eravamo scesi da cavallo camminammo, tra le colline desolate, nelle anse della valle, sotto montagne e catene montuose rocciose o rade, lasciando sulla sinistra il paese di Siculiana con il suo terreno roccioso. 
Il paese sembrava impallidito a causa delle bianche montagne. L'unica cosa strana era una cupola verde che spuntava sulle case bianco-grigie. 

(Realmonte)

Passammo per un'altro paese: anche qui tutto era gessoso e pieno di polvere e sudiciume, e la gente sembrava tanto povera e miserabile quanto brutta. 
Gatti e galline mezzi affamati tra maiali neri e irsuti, questi erano i coinquilini nelle stanze delle case, se si può ancora parlare di stanze.
C'erano solo casette quadrate di pietra con all'interno un sacco imbottito su un telaio che fungeva da letto, un vecchio camino e un panca di legno, tutto qui. Ma su ogni soglia sedeva una donna con il rocchetto, la custode del focolare. 
Intanto tra le casupole, basse com'erano, c'era qua e là una striscia di fresca ombra. Ma fuori tutto era senza ombre, il cielo era color piombo, e la terra, l'aria e le rocce sembravano soffiarci addosso un alito ardente, e ci facevano male gli occhi per il riflesso e la polvere sottile. 
Fu un viaggio faticoso, poiché la guida esortava sempre alla fretta, l'unico sollievo erano le arance che ripetutamente cadevano, formando una fila,  dalle grandi ceste del primo mulo.
Eravamo finalmente arrivati in un'area ricca di gesso​​: le montagne non erano alte ma verso la costa si abbassavano e diventavano completamente bianche. Finalmente il sentiero ci ricondusse alla spiaggia e alla frescura del mare. Abbiamo respirato profondamente, anche se il vento tagliente soffiava sabbia e polvere di sale in faccia. 
A sinistra, le rocce calcaree apparivano bianche come la neve, stranamente frastagliate e sbiadite; l'aria calda sembrava circondarle. Ma davanti a noi, a solo un'ora di distanza, giacevano le navi di fronte a Girgenti, dove avevamo tanto desiderato riposo e frescura. Poiché la guida incitava con sempre più entusiasmo e il vento soffiava con più violenza, gli animali correvano a tutta velocità, tra le onde gorgoglianti e la sabbia mossa dai venti, ma sempre vicino al mare.

(Porto Empedocle)

Nel porto molti si muovevano all'aperto, ma tra le case si udiva il martellamento, il lavoro di falegnameria e i rumori di una vivace vita popolare. Marinai di tutte le nazionalità sedevano su botti e panche e facevano baldoria. Lanciavamo anche sguardi indiscreti: oh, era solo il porto, solo il Molo di Girgenti, la città era sei miglia più in là. Ancora una strada impervia, anche se un'ottima strada sassosa. 

(Girgenti)

Ma siamo stati premiati. Apparvero i magnifici templi greci, e dall'alto la città vecchia risplendeva, imponente e pittoresca. Nessuno è mai stato più felice di noi quando finalmente ci siamo alzati e siamo saltati giù dalla sella! 
Dalle sei del mattino alle sei della sera avevamo viaggiato con il caldo e la polvere, e ci eravamo riposati solo mezz'ora a Monteallegro, ma la guida lodò tutto la carovana per essere arrivati al sicuro e in un buon momento della giornata.
Con grande soddisfazione, per tutto questo fosse stato superato, mi sono appoggiato su una sporgenza per guardare un po' di Girgenti. Ho guardato una piccola piazza piena di gente, nessuna delle quali aveva una gonna di stoffa e forse la metà di loro aveva una camicia intera. 
I venditori nelle loro piccole bancarelle si facevano sentire, soprattutto i venditori di carne.
C'erano quattro o cinque persone in una piccola stanza, e stavano tutti urlando come se fossero posseduti. Dove c'era più rumore, era lì che andava la maggior parte degli acquirenti, come se fosse lì che dovevano esserci i prodotti migliori. 
I peggiori urlatori stavano proprio sotto di me, uno vecchio e uno giovane: il vecchio gridava con il tono più basso, il giovane con il tono più alto, ed entrambi cantavano con una cadenza lunga e prolungata, la cosa sembrava estremamente strana. 
Quando i siciliani urlavano ai loro animali o un ragazzo iniziava a gridare, avevo l'impressione che la loro scala musicale fosse africana. (..)
Girgenti è tagliata da strette strade, quasi sentieri di montagna, molti vecchi muri fumosi, molte brutte chiese, piccole piazze pittoresche e alcuni grandi edifici pieni di soldati. 
La vecchia città sembra costruita solo per necessità e si lascia che ciò che non dura cada in rovina, come se la prossima volta se ne andranno di nuovo. La popolazione brulica tra le piccole case di pietra, come quelle del nostro paese di duemila abitanti, questa è l'odierna Girgenti, anche se ha quasi dieci volte più abitanti.
Vivono dei loro ricchi raccolti di frutti esotici e dell'importanza del loro porto come maggior punto di carico dello zolfo, che oggi è il prodotto più importante che la Sicilia esporta. 
Trent'anni fa non si produceva nemmeno un milione di scellini all'anno: ora che l'uva malata ha bisogno di tanto zolfo e le fabbriche europee hanno bisogno sempre più di acido solforico, le esportazioni sono aumentate a tre-quattro milioni di scellini. Su tutte le strade per Girgenti si vedono i muli che trasportano ceste o trainano carretti nei quali giacciono ammucchiati come tronchi di legno i bellissimi pezzi di zolfo giallo nocciolo. I sentieri sono fiancheggiati da scheletri di muli, come le strade del deserto di ossa di cammello. 
Ci vogliono molti giorni e molti carichi prima che venga caricata una nave di zolfo. La metà del suo valore attuale consiste semplicemente nel costo del trasporto dall'entroterra al porto. Sarebbe incredibile se non fosse reale. 
E come si estrae questo minerale, così prezioso per la Sicilia? Lo zolfo viene estratto dalle miniere, i pezzi vengono messi insieme in un mucchio con l'argilla e il gesso con cui si lega e quindi bruciati. Venti o trenta parti dello zolfo migliore evaporano, l'acido solforico si disperde in dense nubi di fumo, inquina l'aria e ostacola la crescita delle piante. 
Adesso hanno cominciato a sciogliere lo zolfo in una specie di fornace da calce: ma le perdite e gli svantaggi sono solo di poco minori. Sarebbe incredibile se ciò non accadesse.
Ma per quanto povera e miserabile sia adesso Girgenti, essa è ancora viva nei lineamenti lacerati, nei solchi neri del volto di questa città, come grandi ricordi storici. Poche città al mondo possono competere con questo. Ha sempre mantenuto il suo ruolo di roccaforte della costa meridionale. 
Chi voleva conquistare il sud della Sicilia doveva prima prendere Girgenti. Qui sta la storia della sua mura merlate tanto contesa al tempo dei Normanni e dei Saraceni, dei Romani e dei Cartaginesi. Una volta si poteva camminare per un'ora sulla cima delle mura, che circondavano gli ultimi resti della città, fino al mare, dove sorgono le magnifiche rovine dei templi. 
Contava quasi un milione di abitanti, si commerciava e si godeva del piacere e della gioia di vivere.
C'erano ricchissimi mercanti che inviavano servi per invitare tutti gli stranieri, fossero un centinaio o più, a godere dell'ospitalità dei loro padroni. C'erano filosofi e medici di fama che sembravano re e apparivano pubblicamente in vesti viola con una corona splendente in testa. 
C'erano gli architetti che tentavano di creare opere più grandi di quanto si potesse concepire in qualsiasi parte del mondo. E non si vantano anche i Siciliani che il grande Zeusi, nato nella vicina Eraclea, dipinse ad Agrigento il più bello del bello? Nelle processioni si vedevano folle di delicate fanciulle i cui piedi non toccavano mai terra perché camminavano sempre su tappeti o portate sui carri. 
Ma i figli dei cittadini apparivano su cavalli bianchi come latte, la cui pelle splendeva come seta.
Sontuosi e interminabili banchetti per gli ospiti, belle ragazze che ballavano sotto gli alberi in fiore, centinaia di lucenti e impeccabili cavalli bianchi nelle scuderie e innumerevoli amici e ospiti, per godere di ogni cosa buona e per deliziare il padrone con battute e giochi di parole, che per un ricco agrigentino sembrava la ricompensa per la fatica della vita. 
Naturalmente c'è molto da raccontare sul coraggio e sull'audacia degli agrigentini nel combattere. La città si espanse grazie al commercio con l'Africa e alla fertilità dell'area circostante. Ma quando i Punici presero d'assalto le loro mura ed i mercenari si ritirarono, la magnifica Agrigento perì miseramente per vigliaccheria. I cittadini fuggirono nella notte e nella nebbia, e la mattina dopo i feroci africani la invasero, scatenando il caos, e le urla delle orde di saccheggiatori risuonarono attraverso lo schianto e il ruggito dell'incendio generale. 
Ciò accadde nel 406 a.C. Successivamente ricostruita, la città cadde nuovamente nelle mani dei Punici, finché finalmente i Romani, devastarono ripetutamente Agrigento con il fuoco e con la spada, più barbara di quella dei selvaggi Numidi. Tuttavia, la città continuò a prosperare perché né il commercio con l’Africa né la fertilità delle sue terre si estinsero. Secondo Diodoro, a Cartagine le opere saccheggiate furono ben pagate. (...) 
Solo quando la vita cominciò a estinguersi sulle coste settentrionali dell’Africa iniziò l’inarrestabile desolazione delle coste meridionali della Sicilia.
Agrigento, dove si vedevano carri d'avorio, la città greca di cui cantava Pindaro, la più bella delle città terrene,(...) non lasciò erede altro che la povera piccola Girgenti. 
Ma no, i fuochi e le devastazioni dei punici, romani e dei saraceni non riuscirono annientarla e la lenta devastazione del tempo non riuscì a distruggerla, la fila dei templi ai piedi di Girgenti, i più bei templi greci che ancora esistono al mondo, si illuminavano verso di noi mentre salivavamo dal mare, brillavano ancora nei miei sogni quando cadevo addormentato per la stanchezza, felice nella certezza che avrei dedicato loro il giorno dopo.

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