Il fotografo italo americano, Nick Parrino durante la seconda guerra mondiale lavorò per la "United States Office of War Information" (OWI), partecipando a diverse campagne come il Nord Africa, il Medio Oriente e l' Italia.
Nel settembre del 1943 documentò le fasi dello sbarco in Sicilia e la progressiva occupazione delle città siciliane, famosi sono i suoi scatti di Palermo e Catania. Le sue foto immortalano momenti di vita quotidiana del popolo siciliano.
Nella biblioteca del congresso americano tre foto sono state catalogate in maniera errata, gli scatti sono stati attribuiti a Siracusa. La qualità delle scansioni sono tali da poterne apprezzare anche i dettagli.
Di Nick Parrino si conosce pochissimo  visse a Cleveland, nell’Ohio, e prima della guerra lavorò per il "Cleveland Plain", morì nel 1979. 


One of the ruins visited by the British Eighth Army officers and men on their day off for sightseeing, in the usual peacetime manner, in Sicily




Syracuse (vicinity), Sicily. Ruins of a Roman amphitheatre with U.S. Army jeeps in the background




Syracuse (vicinity), Sicily. Roman ruins




Agrigento, Sicily. Ruins of Greek temples





Agrigento, Sicily. An ancient Greek temple still stands after war passed it by



Syracuse (vicinity), Sicily. A girl standing in the doorway of her makeshift home in the ruins of a Roman amphitheatre.



Agrigento, Sicily. Ruins of Greek temples


Agrigento, Sicily. Ruins of Greek temples


L'entrata degli americani a Montallegro.

Un Fotografo, una cinepresa, un cameraman, una macchina fotografica, una immagine statica, una in movimento, l'esposizione, il fissaggio, il taglio, il montaggio,  non meno potenti di una rete internet o di uno smartphone, raccontano una storia: la conquista e la liberazione degli alleati dei piccoli paesi siciliani. Nella foto però si nota un piccolo particolare, una cinepresa.


In primo piano la cinepresa 

Negli archivi dell'Istituto Luce sono conservati diversi filmati che documentano l'avanzata dell'esercito alleato nel sud Italia.
A Montallegro, per fini di propaganda, fu girata una sequenza probabilmente non più lunga di due minuti, da cui furono estratti spezzoni, anche di pochissimi secondi, incorporati in altri filmati.
...un cenno e la colonna avanza e i fanti e le camionette...
Il paese dopo 80 anni, come ovvio, oggi è cambiato.




 

Bovo marina Montallegro
Foto della costa di Montallegro 

Montallegro. Raggiungibile con una vettura postale da Girgenti in 7 ore e 40 minuti, e Sciacca in 7 ore. C'e anche una vettura postale per Cattolica- Eraclea. Chiamato anche Angiò perché appartenuto ai Duchi Gioeni d'Angiò. Gli abitanti furono così molestati dai corsari quando vivevano sulla collina di Cicaldo, vicino al mare, che lasciarono lì le loro case e costruirono un nuovo paese sulla montagna vicina, anch'essa abbandonata per mancanza d'acqua, e chiamata la città dell'alabastro, perché è costituita da un bellissimo alabastro venato di rosso. Ha un laghetto rotondo circa mezzo miglio ricco di soda. Potrebbe essere chiamato il siciliano Les Baux.

Tratto da: Sicily, the new Winter resort, an enciclopedia of Sicily, by Douglas Slanden, NY 1907


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Il sentiero attraversa ora aperte discese fino a Montallegro, ma prima di raggiungere tale paese si supera un laghetto, circa 1/2 miglio di diametro, mezzo soffocato dai giunchi e brulicante di uccelli selvatici. 

Il paese deserto di (47 m.) Montallegro (1437 ab.), sul pendio di una collina fino al L., è racchiuso da mura in rovina, è la cosa più pittoresca, ed forse unica, poiché costruita interamente in alabastro. 

"Questo scheletro di città, senza tetti, senza finestre o porte, è occupato solo da aloe e fichi d'india, che crescono da ogni apertura. Alcuni gradini a zigzag tagliati nella roccia ne costituiscono l'unico accesso."-Simond. 

Fu costruito solo 2 secoli fa, e fortificato a protezione contro i corsari barbari, e venne abbandonato a causa della scarsità d'acqua; gli abitanti si trasferirono ai piedi del vecchio paese, che non è meno miserabile e di aspetto decaduto. Anche la chiesa è in rovina. Il luogo deve aver ricevuto per ironia il nome di "Monte Allegro". La locanda è

 “la più paurosa di tutta la Sicilia – come una cella di un condannato, ove i viaggiatori hanno registrato la loro più totale disperazione sui muri, come se fossero le pagine di un libro”.

T. G. C. 

Gli abitanti sono miseramente poveri, privi del necessario per vivere, e soffrono molto di malaria; i campi sono trascurati e gran parte del terreno coltivabile è invaso da palme nane e cipolle selvatiche; anche se ci sono alcune piantagioni di cotone e alcune di ulivi, aranci e carrubi nei dintorni. Dalle bacche del lentisco i contadini ricavano un olio non raffinato. La montagna che si erge nell'entroterra è composta di alabastro bianco e grigio, utile per le decorazioni degli edifici.(...) 

Per diverse miglia a est di Montallegro la costa è rocciosa e sterile. Il sentiero corre prima attraverso una valle racchiusa da isolate alture delimitate da scogliere, e poi gira bruscamente attraverso uno stretto passaggio che si apre verso il mare, dove si trovano gli edifici bianchi e la cupola verde di Siculiana con il suo antico castello baronale.


Tratto da: Handbook for travellers in Sicily., London, John Murray, 1864.

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Guardati chi fuss' ïu lu Bati Meli (16)

Li donni schetti li farrà vutari (17) 

Cu li me' canti spezza cantuneri; 

Li posti chiusi fazzu barracari (18);

Siti cchiù duciulidda di lu meli (19)

Ca cu' vi tasta nun vi po' scurdari (20), 

Siddu cci arrivu a tràsiri stu pedi (21)

Lu tempu persu nni l'ammu a scuttari (22). 

Montallegro 


(16) Guardali equivale all'altra forma: Oh Diu! e all' Ultinam de' Latini. Bati Meli, l'Abate Giovanni Meli, il più grande poeta in dialetto siciliano, Teocritus alter et Anacreon, come dice l'iscrizione che se ne legge nei suoi monumenti in Palermo. Questo accenno prova che il canto è di questo secolo, o degli ultimi del passato. 

(17) Donni schetti, ragazze, donne nubili. Il pensiero è questo: «Se io fossi il poeta Meli farei voltare in favor mio tutte le ragazze. >> 

(18) Barracari, o sbarracari, o sbarrachiari, spalancare. 

(19) Duciulidda, dim. di duci, dolce..

(20) Tastari, saggiare, gustare. 

(21) Siddu, se; trasiri, entrare. 

(22) Scuttari, qui ricompensare, rifare. I due ultimi versi dicono: «Se io riesco ad entrar nella tua casa, (ti prometto che) noi ci rifaremo del tempo perduto.

Tratto da: Centuria di canti popolari siciliani ora per la prima volta pubblicati da Giuseppe Pitré, 1791.



Da un "Album di foto di viaggi, in Sicilia e Nord Africa", 1910 circa,
stampe su carta alla gelatina d'argento, Biblioteca Nazionale Polacca.

Rovine Tempio Ercole Agrigento
Rovine del tempio di Ercole

Rovine Tempio Ercole Agrigento
Rovine del tempio di Ercole 


Tempio Dioscuri Agrigento
Tempio dei Dioscuri

Tempio Dioscuri Agrigento
Tempio dei Dioscuri

Tempio Dioscuri Agrigento
Tempio dei Dioscuri


Tempio Giunone Agrigento
Tempio di Giunone

Tempio Giunone Agrigento
Tempio di Giunone

Tempio Giunone Agrigento
Tempio di Giunone

Tempio Giunone Agrigento
Tempio di Giunone




Tempio della Concordia
Tempio della Concordia 

Tempio della Concordia
Tempio della Concordia

Capre girgentane
Capre girgentane



Capre girgentane
Capre girgentane

Capre girgentane
Capre girgentane

Oratorio Falaride
Oratorio di Falaride



Pierre-Francois-Henri Labrouste fu un noto architetto francese oggi considerato uno dei migliori interpreti dell'"architettura degli ingegneri".
Nel 1824, dopo avere vinto il Prix de Rome, ossia una borsa di studio che prevedeva un perfezionamento di 5, si trasferì nella città eterna.
Tra il 1824 e il 1830 intraprese una serie di viaggi che lo portarono anche in Sicilia. Nei suoi numerosissimi rilievi, disegni e annotazioni è presente uno schizzo di una locanda nelle vicinanze di Montallegro. Il disegno è custodito nella Biblioteca Nazionale francese.

Albergo Montallegro
La locanda

Montallegro Agrigento
Il foglio del taccuino 

Nella nota si legge:

Montallegro (prės). Auberge. On peut relever l'explication suivante "aubergiste qui était un voleur a été fusillé et sa tete placée dans une cage au sommit de la tour "

Ossia:

Montallegro (vicino). Locanda. Possiamo notare la seguente spiegazione "l'oste che era un ladro fu fucilato e la sua testa fu messa in una gabbia in cima alla torre" 


La torre di Montallegro
La gabbia 
Smirke nacque a Londra nel 1780, figlio del pittore Robert Smike, studiò alla Royal Academy.
Nel 1801 intraprese con il fratello Richard il Grand Tour. 
Nel 1805 fece tappa a Girgenti, dove ritrasse scorci e panorami della città.  Tra i tanti rilievi effettuati, ne spicca uno: la ricostruzione ipotetica del tempio di Giove.
L'ipotesi presenta alcune particolarità: i pilastri quadrati interni della cella sono pensati come muri di fondazione su cui poggiano le colonne e nel prospetto orientale si aprono in tutti gli intercolumni sei porte di accesso.


Ricostruzione pianta tempio di Zeus Smirke
Ricostruzione della pianta del tempio


Ricostruzione tempio di Zeus Smirke
Il prospetto orientale.







Franz von Löher fu un politico tedesco, studiò legge, storia, scienze naturali e arte nelle università di Halle, Monaco, Friburgo e Berlino, nella metà dell'Ottocento intraprese una serie di lunghi viaggi in Europa, Canada e Stati Uniti di America.

Nel 1864 uscì un suo libro, in due volumi, "Sizilien und Neapel", in cui racconta il viaggio intrapreso nel regno Borbonico. Nel primo tomo dedicò un capitolo intitolato "Monteallegro e Girgenti" in cui descrive il percorso tra i due capoluoghi di allora, Sciacca e Girgenti.

Monteallegro e Girgenti 

Un viaggio in Sicilia, come in Oriente o nelle terre selvagge americane, ha un suo peculiare piacere. Stai a cavallo tutto il giorno, vedi il sole che sorge presto sopra i monti e scende nel mare a tarda sera, vedi ogni piccolo animale in fondo alla brughiera e ogni avvoltoio alto tra le nuvole: insomma, tutta la natura con la sua molteplice vita, con il suo cambiamento e trasformazione inquieta e silenziosa, con le sue tentazioni segrete più profonde che penetrano nei sensi e fino nei pori della pelle.
 Lì vivi all'aria aperta e ti senti come un nuotatore su un'onda morbida e luminosa. E forse la più grande attrazione è che non ti stiracchi in un treno postale o in un vagone ferroviario, ma devi impegnare la tua mente e la tua forza ogni momento per raggiungere le vette delle rocce e attraversare con sicurezza i fiumi. Naturalmente ci sono anche delle difficoltà e dovremmo rendercene conto il prima possibile. E poi, per quanto riguarda la notte, preferirei cento volte dormire sotto una tenda e le stelle che nelle locande di Sicilia.
Queste osterie hanno un solo vantaggio: il cuoco che vi accompagna potrà preparare gustose pietanze ai fornelli usando la loro cucina, sempre se durante il giorno avrà gli occhi aperti per vedere dove si possono comprare cose decenti. Quando siamo partiti da Sciacca, il sole era ancora alle spalle delle montagne di nuda pietra. Lo sguardo alla città pallida, alle torri divelte del suo castello, a un'alta montagna a sinistra con le rovine del castello (...). L'alta montagna che svettava era il Calogero, le cui calde sorgenti sulfuree erano già state utilizzate dall'antichità. L'isola di Pantelleria fu cercata invano tra le coltre di nubi che giacevano sull'orizzonte del mare. 
Si passò per colline rocciose e attraverso profondi canali scavati dall'acqua in cui invece dell'acqua brillavano masse di ciottoli enormi che arrivavano fino alla riva del lago, e poi ancora su dune, dall'alto delle quali si vedevano le rocce multiformi e i vortici del mare e del grigio promontorio, intorno al quale le onde schiumavano e i bianchi gabbiani vi svolazzavano intorno.
 E ancora una volta siamo scesi sul mio sentiero preferito, quello vicino alla spiaggia, a contatto con le maree fragorose e tonanti. Il mare era costantemente in grande agitazione. La terra ormai troneggiava sopra di noi come un lungo, interminabile muro, ai piedi del quale non c'era altro che la striscia di sabbia sul mare agitato. Ogni tanto alla sommità di questo muro fatto di terra, che risale al periodo saraceno, venivano alla luce punti rialzati e torri di avvistamento diroccate. Alcune volte l'acqua scendeva dall'altopiano, in un'ampia caduta, ma non se ne vedeva il rivolo: sicuramente di sopra venivano irrigati i campi.
Il nostro sentiero era  un  letto di ciottoli e attraversava colline sabbiose e insidiose pozze d'acqua, poi il percorso era così stretto che, a volte, solo un essere umano o un mulo potevano camminarci sopra. Questa era l'unica strada tra Sciacca e Girgenti, i due capoluoghi della costa meridionale. Per ore non vedemmo nessuno, arrivò solo un frate cappuccino tutto rattoppato che guidava il suo povero asinello nella sabbia. 
L'atmosfera era indicibilmente solitaria, tra il mare e le montagne di dune ti sentivi come se fossi tagliato fuori dal mondo intero. Ma guarda che alto simbolo di cultura! In mezzo alla sabbia deserta incontrammo all'improvviso degli uomini che montavano i pali del telegrafo, subito dopo ci dirigemmo nuovamente verso l'entroterra ed eravamo di nuovo circondati da eriche profumate ma più rigogliose e fiorite. 
Ogni erba selvatica gareggiava per dare il meglio di sé. I grandi fianchi delle montagne apparivano ricoperti di ginestre giallo chiaro, là di trifoglio rosso vivo, e altri luoghi erano completamente ricoperti di fiori blu. 
Tutti i nostri bambini conoscono la piccola euforbia: qui è cresciuta fino a diventare un albero, alta come un cavallo e un cavaliere. Lentamente scendevamo verso i prati, in mezzo ai quali serpeggiava un lento e profondo corso d'acqua, il Platani. Come era così bello alla vista questo verde mite! Si cercò a lungo un guado da attraversare e quando lo si trovò l'acqua arrivava alla sella. La zona era deserta. 
Ma quando salimmo sul pendio di una montagna e guardammo in lontananza apparve lo spettacolo più vivido. Lì c'era un abbeveratoio, si potrebbe quasi dire che, tra tutti i luoghi, questo simboleggiasse la Sicilia.
Una sorgente è raccolta in un enorme vasca di pietra, attorno alla quale c'è molto fango, bovini e persone vengono a dissetarsi. Nessuno si inorridisce per il fango e la sporcizia sul fondo dell'abbeveratoio, i bovini non lo fanno per natura, il popolo per abitudine. 
Pecore e buoi, capre e muli erano ora radunati come chiazze chiare attorno a uno di questi abbeveratoi, e nuove mandrie continuavano ad arrivare dalle alture. I pastori, a cavallo o meno,  avevano lunghe aste di legno in mano e i potenti e lunghi fucili piazzati davanti la sella del cavallo. 
Gli uomini apparivano maestosi, le loro mandrie magnifiche. C'erano buoi, rossi e bianco-grigi, con enormi corna, grandi quanto metà delle zanne degli elefanti, eppure ogni muscolo del loro collo si muoveva agilmente e facilmente sotto la pelle lucida, sembravano come una specie di cervo selvatico. Non bisogna però dare per scontato che i bovini potessero comportarsi così bene. 
Anche le persone e gli animali della nostra carovana desideravano una sosta, ma la nostra guida passò velocemente e silenziosamente. Avrà le sue buone ragioni. E di nuovo andammo nel deserto, e di nuovo il vento caldo che si era alzato ci avvolse. Se ogni tanto non fosse stato per una folata di vento più fresca, il caldo sarebbe diventato insopportabile. 

(Monteallegro)

Entrammo in una valle rocciosa: davanti a noi si ergeva un'alta montagna, con i fianchi molto ripidi. 
E nonostante fosse così alta e ripida, in cima c'era ancora uno strano paese con mura e strade, case e chiese: era crollato tutto, tutto era morto e vuoto, e come incantato nella luce del giorno.
Il paese era deserto da secoli, nessuno saliva più a disturbarlo. Chi avrebbe tentato di scalare quella altissima e terribile roccia quando non c'era più nulla da guadagnare? Così il paese fantasma rimase intatto, abbandonato a se stesso, anno dopo anno. 
Mentre giravamo intorno alla montagna, ai suoi piedi c'era un meraviglioso giardino, completamente ricoperto di alberi verdi e fittamente pieno, quasi ricamato, di arance dorate: uno spettacolo bello e strano in questo deserto nudo e roccioso. 
Subito dietro c'era la nuova Monteallegro, il cui fondatore un tempo possedeva questo ormai fatiscente vecchio paese. Mai nessun villaggio fu chiamato con tanta ingiustizia. 
Questa dovrebbe essere una "montagna divertente"? Ma del resto se ogni giorno porta dolore, poi ti ci abitui e il dolore lo dimentichi. Le case sono buchi di gesso, le strade sono letti di gesso con spessa polvere, le montagne tutt'intorno sono gessose. Nelle strade l'aria era calda e soffocante. Anche qui c’era un edificio di pietra con lo stemma dei Savoia e la scritta colorata: “Vigilantes di Monteallegro”. 
Dalle divise logore e sporche spuntava una bella collezione di "facce da forca", così direbbe un connazionale tedesco che non conosce gli italiani. Poveri ragazzi! Hanno deciso di prendersi una pallottola in corpo dai loro stessi compagni di scuola che sono fuggiti in montagna per non diventare soldati? 
Intanto il cielo azzurro e la gentilezza delle donne era ovunque. Anche nella piccola locanda di Monteallegro c'erano gli sguardi amichevoli delle ragazze, e il il vino aveva un buon sapore. Ma avremmo preferito andare nella fresca cantina piuttosto che nella stanza, se ce ne fosse stata una. 
Soffiava ora uno Scirocco che nemmeno in Africa.
Su questa costa meridionale abbiamo trovato uno scirocco fresco come torte calde appena sfornate. Ma a che serviva lamentarsi? 

(Siculiana)

Eravamo scesi da cavallo camminammo, tra le colline desolate, nelle anse della valle, sotto montagne e catene montuose rocciose o rade, lasciando sulla sinistra il paese di Siculiana con il suo terreno roccioso. 
Il paese sembrava impallidito a causa delle bianche montagne. L'unica cosa strana era una cupola verde che spuntava sulle case bianco-grigie. 

(Realmonte)

Passammo per un'altro paese: anche qui tutto era gessoso e pieno di polvere e sudiciume, e la gente sembrava tanto povera e miserabile quanto brutta. 
Gatti e galline mezzi affamati tra maiali neri e irsuti, questi erano i coinquilini nelle stanze delle case, se si può ancora parlare di stanze.
C'erano solo casette quadrate di pietra con all'interno un sacco imbottito su un telaio che fungeva da letto, un vecchio camino e un panca di legno, tutto qui. Ma su ogni soglia sedeva una donna con il rocchetto, la custode del focolare. 
Intanto tra le casupole, basse com'erano, c'era qua e là una striscia di fresca ombra. Ma fuori tutto era senza ombre, il cielo era color piombo, e la terra, l'aria e le rocce sembravano soffiarci addosso un alito ardente, e ci facevano male gli occhi per il riflesso e la polvere sottile. 
Fu un viaggio faticoso, poiché la guida esortava sempre alla fretta, l'unico sollievo erano le arance che ripetutamente cadevano, formando una fila,  dalle grandi ceste del primo mulo.
Eravamo finalmente arrivati in un'area ricca di gesso​​: le montagne non erano alte ma verso la costa si abbassavano e diventavano completamente bianche. Finalmente il sentiero ci ricondusse alla spiaggia e alla frescura del mare. Abbiamo respirato profondamente, anche se il vento tagliente soffiava sabbia e polvere di sale in faccia. 
A sinistra, le rocce calcaree apparivano bianche come la neve, stranamente frastagliate e sbiadite; l'aria calda sembrava circondarle. Ma davanti a noi, a solo un'ora di distanza, giacevano le navi di fronte a Girgenti, dove avevamo tanto desiderato riposo e frescura. Poiché la guida incitava con sempre più entusiasmo e il vento soffiava con più violenza, gli animali correvano a tutta velocità, tra le onde gorgoglianti e la sabbia mossa dai venti, ma sempre vicino al mare.

(Porto Empedocle)

Nel porto molti si muovevano all'aperto, ma tra le case si udiva il martellamento, il lavoro di falegnameria e i rumori di una vivace vita popolare. Marinai di tutte le nazionalità sedevano su botti e panche e facevano baldoria. Lanciavamo anche sguardi indiscreti: oh, era solo il porto, solo il Molo di Girgenti, la città era sei miglia più in là. Ancora una strada impervia, anche se un'ottima strada sassosa. 

(Girgenti)

Ma siamo stati premiati. Apparvero i magnifici templi greci, e dall'alto la città vecchia risplendeva, imponente e pittoresca. Nessuno è mai stato più felice di noi quando finalmente ci siamo alzati e siamo saltati giù dalla sella! 
Dalle sei del mattino alle sei della sera avevamo viaggiato con il caldo e la polvere, e ci eravamo riposati solo mezz'ora a Monteallegro, ma la guida lodò tutto la carovana per essere arrivati al sicuro e in un buon momento della giornata.
Con grande soddisfazione, per tutto questo fosse stato superato, mi sono appoggiato su una sporgenza per guardare un po' di Girgenti. Ho guardato una piccola piazza piena di gente, nessuna delle quali aveva una gonna di stoffa e forse la metà di loro aveva una camicia intera. 
I venditori nelle loro piccole bancarelle si facevano sentire, soprattutto i venditori di carne.
C'erano quattro o cinque persone in una piccola stanza, e stavano tutti urlando come se fossero posseduti. Dove c'era più rumore, era lì che andava la maggior parte degli acquirenti, come se fosse lì che dovevano esserci i prodotti migliori. 
I peggiori urlatori stavano proprio sotto di me, uno vecchio e uno giovane: il vecchio gridava con il tono più basso, il giovane con il tono più alto, ed entrambi cantavano con una cadenza lunga e prolungata, la cosa sembrava estremamente strana. 
Quando i siciliani urlavano ai loro animali o un ragazzo iniziava a gridare, avevo l'impressione che la loro scala musicale fosse africana. (..)
Girgenti è tagliata da strette strade, quasi sentieri di montagna, molti vecchi muri fumosi, molte brutte chiese, piccole piazze pittoresche e alcuni grandi edifici pieni di soldati. 
La vecchia città sembra costruita solo per necessità e si lascia che ciò che non dura cada in rovina, come se la prossima volta se ne andranno di nuovo. La popolazione brulica tra le piccole case di pietra, come quelle del nostro paese di duemila abitanti, questa è l'odierna Girgenti, anche se ha quasi dieci volte più abitanti.
Vivono dei loro ricchi raccolti di frutti esotici e dell'importanza del loro porto come maggior punto di carico dello zolfo, che oggi è il prodotto più importante che la Sicilia esporta. 
Trent'anni fa non si produceva nemmeno un milione di scellini all'anno: ora che l'uva malata ha bisogno di tanto zolfo e le fabbriche europee hanno bisogno sempre più di acido solforico, le esportazioni sono aumentate a tre-quattro milioni di scellini. Su tutte le strade per Girgenti si vedono i muli che trasportano ceste o trainano carretti nei quali giacciono ammucchiati come tronchi di legno i bellissimi pezzi di zolfo giallo nocciolo. I sentieri sono fiancheggiati da scheletri di muli, come le strade del deserto di ossa di cammello. 
Ci vogliono molti giorni e molti carichi prima che venga caricata una nave di zolfo. La metà del suo valore attuale consiste semplicemente nel costo del trasporto dall'entroterra al porto. Sarebbe incredibile se non fosse reale. 
E come si estrae questo minerale, così prezioso per la Sicilia? Lo zolfo viene estratto dalle miniere, i pezzi vengono messi insieme in un mucchio con l'argilla e il gesso con cui si lega e quindi bruciati. Venti o trenta parti dello zolfo migliore evaporano, l'acido solforico si disperde in dense nubi di fumo, inquina l'aria e ostacola la crescita delle piante. 
Adesso hanno cominciato a sciogliere lo zolfo in una specie di fornace da calce: ma le perdite e gli svantaggi sono solo di poco minori. Sarebbe incredibile se ciò non accadesse.
Ma per quanto povera e miserabile sia adesso Girgenti, essa è ancora viva nei lineamenti lacerati, nei solchi neri del volto di questa città, come grandi ricordi storici. Poche città al mondo possono competere con questo. Ha sempre mantenuto il suo ruolo di roccaforte della costa meridionale. 
Chi voleva conquistare il sud della Sicilia doveva prima prendere Girgenti. Qui sta la storia della sua mura merlate tanto contesa al tempo dei Normanni e dei Saraceni, dei Romani e dei Cartaginesi. Una volta si poteva camminare per un'ora sulla cima delle mura, che circondavano gli ultimi resti della città, fino al mare, dove sorgono le magnifiche rovine dei templi. 
Contava quasi un milione di abitanti, si commerciava e si godeva del piacere e della gioia di vivere.
C'erano ricchissimi mercanti che inviavano servi per invitare tutti gli stranieri, fossero un centinaio o più, a godere dell'ospitalità dei loro padroni. C'erano filosofi e medici di fama che sembravano re e apparivano pubblicamente in vesti viola con una corona splendente in testa. 
C'erano gli architetti che tentavano di creare opere più grandi di quanto si potesse concepire in qualsiasi parte del mondo. E non si vantano anche i Siciliani che il grande Zeusi, nato nella vicina Eraclea, dipinse ad Agrigento il più bello del bello? Nelle processioni si vedevano folle di delicate fanciulle i cui piedi non toccavano mai terra perché camminavano sempre su tappeti o portate sui carri. 
Ma i figli dei cittadini apparivano su cavalli bianchi come latte, la cui pelle splendeva come seta.
Sontuosi e interminabili banchetti per gli ospiti, belle ragazze che ballavano sotto gli alberi in fiore, centinaia di lucenti e impeccabili cavalli bianchi nelle scuderie e innumerevoli amici e ospiti, per godere di ogni cosa buona e per deliziare il padrone con battute e giochi di parole, che per un ricco agrigentino sembrava la ricompensa per la fatica della vita. 
Naturalmente c'è molto da raccontare sul coraggio e sull'audacia degli agrigentini nel combattere. La città si espanse grazie al commercio con l'Africa e alla fertilità dell'area circostante. Ma quando i Punici presero d'assalto le loro mura ed i mercenari si ritirarono, la magnifica Agrigento perì miseramente per vigliaccheria. I cittadini fuggirono nella notte e nella nebbia, e la mattina dopo i feroci africani la invasero, scatenando il caos, e le urla delle orde di saccheggiatori risuonarono attraverso lo schianto e il ruggito dell'incendio generale. 
Ciò accadde nel 406 a.C. Successivamente ricostruita, la città cadde nuovamente nelle mani dei Punici, finché finalmente i Romani, devastarono ripetutamente Agrigento con il fuoco e con la spada, più barbara di quella dei selvaggi Numidi. Tuttavia, la città continuò a prosperare perché né il commercio con l’Africa né la fertilità delle sue terre si estinsero. Secondo Diodoro, a Cartagine le opere saccheggiate furono ben pagate. (...) 
Solo quando la vita cominciò a estinguersi sulle coste settentrionali dell’Africa iniziò l’inarrestabile desolazione delle coste meridionali della Sicilia.
Agrigento, dove si vedevano carri d'avorio, la città greca di cui cantava Pindaro, la più bella delle città terrene,(...) non lasciò erede altro che la povera piccola Girgenti. 
Ma no, i fuochi e le devastazioni dei punici, romani e dei saraceni non riuscirono annientarla e la lenta devastazione del tempo non riuscì a distruggerla, la fila dei templi ai piedi di Girgenti, i più bei templi greci che ancora esistono al mondo, si illuminavano verso di noi mentre salivavamo dal mare, brillavano ancora nei miei sogni quando cadevo addormentato per la stanchezza, felice nella certezza che avrei dedicato loro il giorno dopo.